Furiosa: A Mad Max Saga - Recensione

O anche, sulla mitopoiesi.

Furiosa: A Mad Max Saga - La recensione

“Dove dobbiamo andare, noi che siamo costretti a vagare per queste lande desolate alla ricerca della nostra parte migliore?” ci chiedevamo, insieme al Primo custode della storia, all’inizio di quella folle corsa sulla Fury Road, di fronte al film che nel 2015 riportava sugli schermi il guerriero della strada Max Rockatansky, con un altro volto, non più quello di Mel Gibson ma di Tom Hardy, pur rispettando una visione coerente del mito di Mad Max. Dove? Verso quel Luogo Verde oltre il deserto, in cui vive il clan delle molte madri delle Vuvalini, comunità agricola e matriarcale dove iniziare una nuova vita lontano dalle logiche del potere patriarcale, dalla scarsità di risorse, dalla violenza e dalla sopraffazione? Oppure verso un'idea, quella di una società legata al concetto di cura comunitaria?

Oggi, a quasi nove anni da quell’ultima incursione nelle Terre Desolate e a quarantacinque dal primo capitolo, Interceptor (1979), George Miller ci pone un’altra domanda ancora più attuale, ancora più impellente: “Mentre il mondo crolla di fronte a noi, come possiamo affrontare la crudeltà?”. Lo fa proprio all’inizio di Furiosa: A Mad Max Saga, film presentato fuori concorso a Cannes, che ci racconta le origini del personaggio interpretato magistralmente da Charlize Theron in Fury Road. Perché di fronte all'impossibilità di fuggire, di trovare un “paradiso” in cui rifugiarsi, dal momento che quella dei luoghi di prosperità è solo una storia a cui ci aggrappiamo, non si tratta più di dove andiamo, ma di chi siamo e come agiamo.

Furiosa: A Mad Max Saga, diretto da George Miller, co-sceneggiato con Nico Lathouris, inizia così, con una dichiarazione d’intenti: nonostante assuma i tratti di un viaggio eroico, di fatto vuole essere il film di chi resta. Sappiamo già da subito che dietro questa ambientazione post-apocalittica, che guarda al passato per mettere in scena il futuro, si nasconde, come succedeva anche negli altri capitoli, un discorso estremamente lucido sul presente. Non a caso, il film si apre a nero, mentre ascoltiamo una serie di voci che riportano notizie su quella che si rivelerà essere la crisi climatica, sociale e politica che condurrà allo scenario delle Terre Desolate. È probabilmente il racconto di un domani molto prossimo o, magari, proprio del nostro presente. A un certo punto, sentiamo distintamente una voce che dice «non è la fine del mondo», che suona quasi in contrasto ironico con quello che vedremo sullo schermo. Perché certo, la storia ci insegna che anche quando le civiltà e i sistemi collassano, non è mai la fine del mondo in senso assoluto, ma la fine di un mondo, in questo caso il nostro, quello sì.

La fine del mondo

In un certo senso, anche la storia di Furiosa inizia con la fine del suo mondo: la giovane, interpretata inizialmente da Alyla Browne, viene strappata dal lussureggiante Luogo Verde, rapita dall’orda di motociclisti predoni guidata dal signore della guerra Dementus (Chris Hemsworth), che tortura e uccide la madre (Charlee Fraser). Furiosa passa qualche tempo con la banda, viene istruita alla violenza, si nutre della sua rabbia e del desiderio di vendetta, impara come si sopravvive nelle Terre Desolate, prima di arrivare nella Cittadella governata da Immortan Joe (Lachy Hulme) ed essere ceduta da Dementus in cambio della gestione di Gas Town.

Di fatto, quella di Furiosa è la storia di un’origine eroica (o anti eroica, lascio decidere a voi) che, nella fase del racconto dedicata all’infanzia, acquista i connotati morfologici di una fiaba, utilizzando tutta una serie di dispositivi narrativi e stratagemmi volutamente classici e apparentemente ingenui, come il travestimento e l’uso dell’ingegno, che ricordano quelli della grande tradizione popolare. Nel farlo, Miller si prende molto tempo per farci conoscere la piccola Furiosa, che Browne porta sullo schermo con convinzione e consapevolezza, fornendo così una base solida per l’entrata in scena della versione cresciuta, interpretata da Anya Taylor-Joy. È una scelta coraggiosa, per un regista da cui ci si aspetta una certa asciuttezza e frenesia nella gestione dell’intreccio, ma comprensibile in questo specifico orizzonte: nel momento in cui l’eroina cresce, diventa un personaggio immanente, che porta con sé il vissuto pregresso, ma anche l’esperienza che vivrà in futuro, che il pubblico ha già condiviso con lei in Mad Max: Fury Road.

In tutto questo, non si può dire che la psicologia di Furiosa venga qui esplorata in profondità, ma d’altronde non lo era nemmeno quella di Max, dal momento che riproponeva in un altro contesto l’antieroe del western crepuscolare. Nonostante questo, mi sembra che l’intento sia ricreare la protagonista archetipica di una grande narrazione popolare - fiaba, mito, epica - volta a esplorare un tema, più che il personaggio. Se Fury Road si concentra su quello della redenzione, Furiosa si focalizza su quello della vendetta, tracciando però un percorso inaspettato, che viene portato avanti quasi in progressione anticlimatica: questo fa di Furiosa: A Mad Max Saga un film che formalmente aderisce al linguaggio dell’epos, ma che di fatto ha una forte connotazione anti-epica, nella misura in cui l’epica, sia nella sua forma poetico-letteraria che cinematografica, porta avanti la celebrazione di comportamenti esemplari per il pubblico di riferimento.

Shiny and chrome, again.

Quello di Furiosa, capiamo man mano che la storia arriva alla sua conclusione, è un percorso di consapevolezza, che la pone in netta opposizione con il suo antagonista principale, Dementus, che Chris Hemsworth porta sullo schermo con una recitazione farsesca, ma studiata, restituendo la tragica ironia del teatro classico. Per la nostra protagonista costituisce la negazione di tutto ciò che dovrebbe essere, essendo una chiara personificazione di un potere maschile, patriarcale, che si costruisce sull’abuso, la prevaricazione, lo sfruttamento dei corpi (letteralmente, vende Furiosa per salire nella scala gerarchica), ma anche un personaggio specchio, perché incarna l’ombra di quello che la donna potrebbe diventare dopo aver perso tutto, compresa la speranza, nell’inseguire la sua vendetta.

È interessante che Dementus, uomo distrutto dalla perdita, finisca per essere una versione deviata e inumana proprio di Max. Ecco, in un certo senso si tratta sempre dello stesso personaggio, declinato in tre modi diversi: ma Furiosa ha la peculiarità di essere un'eroina, non un eroe, dunque il suo viaggio si struttura in maniera differente. È innanzitutto un cammino alla ricerca dell'identità, nel tentativo di prendere il controllo della propria narrazione.

Da questo punto di vista, Anya Taylor-Joy funziona bene sia per presenza scenica, soprattutto perché la sua è una protagonista laconica, che per emergere ha bisogno di una spiccata espressività, sia perché riesce a trasmettere quel senso di ruvidezza, di “brutalità determinata” - per citare Praetorian Jack, interpretato da Tom Burke, guerriero taciturno di frontiera che aiuterà la donna nella sua missione - misto alla vulnerabilità di una persona che non ha ancora raggiunto la piena maturità. Anche perché, tra le tante cose, ci troviamo di fronte a un coming-of-age che ci racconta, attraverso il linguaggio del mito, comune alla maggior parte dei film della saga, come quella bambina smarrita sia diventata la Furiosa che conosciamo. D’altronde, è lo stesso Miller a definire il viaggio della sua protagonista “un'odissea”, sia in senso allegorico, sia in senso letterale, perché, come Ulisse, anche lei cerca la strada di casa.

Così, la scelta di volto tanto particolare, in cui si possono trovare somiglianze ma anche tante differenze rispetto a quello di Charlize Theron, contribuisce ad alimentare la mitologia di Furiosa, in modo analogo a come è successo con Max. D’altronde, quella del mito è una modalità espressiva che George Miller sembra scegliere esplicitamente fin dal secondo capitolo della saga, Interceptor - Il guerriero della strada (1981), in cui cambia le carte in tavola proponendo un eroe simile a quello del film precedente, ma profondamente diverso, catapultandolo in un nuovo scenario e trasformandolo da poliziotto senza speranza a viandante taciturno e dal passato oscuro che si muove in uno scenario post-apocalittico. Il Max di Mel Gibson non è quasi più Max Rockatansky, ma diventa l’eroe le cui gesta saranno plasmate dai cantastorie, cosa che peraltro avviene proprio alla fine del film, quando diventa protagonista dei racconti della tradizione orale.

Ecco cosa intendo con teatralità farsesca.

Sotto tale aspetto, ogni episodio di questa saga rappresenta quasi una versione diversa del mito, che non si cura della continuity poiché, in tale orizzonte, ogni tradizione è vera anche quando è in contrasto con le altre. In questo contesto narrativo, cambiare volto al personaggio nel film del 2015 e trasformare Tom Hardy in un nuovo Max, significa slegarlo ancora di più dal personaggio originale e restituire maggiore significatività al racconto, conferendogli un aspetto più contemporaneo e simbolico. Miller, qui in veste di mitografo ancor più che di regista, si serve di Max e di quel suo mondo che ha progettato con tanta cura, insieme a Brendan McCarthy, per sperimentare, dire cose diverse, esprimersi sulla contemporaneità attraverso un apparato simbolico. Ecco, anche la Furiosa di Anya Taylor-Joy, in parte, sembra rispondere a un’esigenza simile: essere familiare ma estranea rispetto a quella che abbiamo conosciuto nel film precedente, dal momento che le figure eroiche finiscono per incarnare tutte le istanze delle storie che le riguardano e dunque hanno mille volti.

Oltre la Fury Road

Difficile, quando si parla di film contigui, non indugiare in confronti, soprattutto davanti a quello che personalmente considero il grande capolavoro dello scorso decennio, praticamente un unicum, sia dal punto di vista della struttura, sia da quello della gestione della sua densa materia narrativa. Fury Road è un film il cui intreccio è certamente ridotto all’osso e si affida quasi esclusivamente alle sequenze d’azione, ma che, dietro il suo ricchissimo impianto visivo, cela un world building stratificato capace di restituire una società culturalmente complessa, che possiamo scorgere nei piccoli gesti rituali, nei neologismi, nelle immagini che ci appaiono in secondo piano. Si tratta di una modalità di racconto che ci fornisce tutte le informazioni in movimento. Forse non ci consegna il quadro completo, ma ci costringe a uno stimolante sforzo immaginativo per riempire gli spazi, quasi in modo partecipativo. Ecco, mi sembra quasi superfluo sottolinearlo, ma Furiosa non è Fury Road e non cerca mai di esserlo. Credo che non abbia molto senso considerare i due film in opposizione, cercare in questo prequel quello che ha reso Fury Road memorabile, ma è interessante capire come le due opere dialoghino tra loro e, soprattutto, quale sia il loro posto all’interno del ciclo.

La corsa di Fury Road, che in qualche modo ripensa in maniera iper spettacolare il classico assalto alla diligenza del western, si sviluppa in un arco temporale ristretto, mettendo in scena, in senso lato, le unità di tempo, spazio e azione che caratterizzano il canone drammaturgico; Furiosa: A Mad Max Saga, invece, si espande nel tempo e nello spazio, abbraccia circa quindici anni e si frammenta in cinque diversi capitoli. Laddove Fury Road alludeva, Furiosa mostra apertamente: ecco quindi che possiamo deviare dal percorso, visitare quella Gas Town di cui avevamo visto solo le ciminiere da lontano e Bullet Farm, che avevamo sentito solo nominare, rendendoci conto così di quanto le Terre Desolate siano sconfinate e pericolose. Niente di tutto questo ci è nuovo, ma i cicli mitici, appunto, funzionano per accumulo, all’interno di un mondo che già si conosce, ma che deve essere definito in modo “sacrale”.

Chiaramente, questa scelta ha a che fare con la volontà, comune nel cinema di George Miller, di sperimentare con i linguaggi e le formule, senza fossilizzarsi mai su una stessa soluzione (basti pensare a quanto differiscono l’uno dall’altro i primi tre capitoli della saga di Mad Max: un violentissimo road movie, un incubo post-apocalittico e un film d’avventura), ma, in qualche modo, credo risponda anche ad altre esigenze molto precise, legate alla natura stessa dei personaggi. Fury Road non ha bisogno di tempo per sviluppare la narrazione: non solo perché la figura di Max fa già parte del nostro immaginario, sappiamo da dove arriva, è già codificata, ma anche perché l’intento drammaturgico è molto ben circoscritto.

Per portare avanti un discorso sulle origini di un personaggio come Furiosa, invece, serve tempo: il racconto, per questo motivo, si fa certamente più canonico, il ritmo è altalenante, i tempi si dilatano, ma alla fine ognuna di queste soluzioni è funzionale a mettere in scena quella che, di fatto, è un’epopea. E anche l’aspetto più artefatto della messa in scena, con un uso della CGI più evidente, e la fotografia ancora più satura realizzata da Simon Duggan, rispondono a questa volontà di tradurre in una precisa identità visiva un tipo di narrazione poetica che non ha nulla di naturalistico, un po’ come ha fatto Robert Eggers nelle sequenze di The Northman in cui metteva in scena l’elemento extraumano. Può certamente piacere o meno a livello estetico, ma non si può dire che non abbia una sua ragion d’essere.

Tradurre in immagine qualcosa che appartiene al tempo del mito.

Colpisce, inoltre, come questo film di quasi due ore e mezza sia, a detta degli autori stessi, il risultato di un lavoro colossale, realizzato per garantire solidità al racconto per immagini di Fury Road, per il quale è stato necessario progettare un intero mondo nei minimi dettagli, creando una vera e propria banca dati capace di custodire tutte le informazioni sulle tribù, rapporti di potere e personaggi, compresa Furiosa. Questo processo, oltre a rendere i due film perfettamente comunicanti nello spazio, oltre che nel tempo, disinnesca anche qualsiasi intento emulativo: d'altra parte, per definizione, non si può replicare un unicum, ma forse vale la pena allargare la prospettiva, abitare ancora un po’ quel mondo e utilizzarlo come uno specchio attraverso cui guardare noi e quello che ci circonda, mentre ci si gode la corsa.

Inutile dire che la corsa è, anche a questo giro, intrattenimento di alto livello: lo spettacolo visivo è chiaramente assicurato anche dalla ricchezza estetica delle scenografie di Colin Gibson e degli strepitosi costumi di Jenny Beavan, in linea con quelle del film precedente. L'azione è un po’ meno serrata che in Fury Road, anche per la natura differente della storia, ma è comunque dirompente, feroce, tanto da impedirci di distogliere lo sguardo da acrobazie sempre inventive e ben realizzate. La famigerata blindocisterna, quando è presente, è ancora protagonista della scena. È interessante notare come, anche in questo caso, Miller scelga di riprenderla spesso lateralmente, attraverso un’inquadratura simmetrica in grado di ricreare la composizione dei bassorilievi di guerra di epoca classica, o addirittura precedente (se lo chiedete a me, neoassira, ma credo sia un’ossessione solo mia).

In ogni caso, i veicoli, nelle scene d'azione, creano i volumi di uno spazio estremamente scenografico in cui i corpi si muovono quasi come in complesse coreografie di danza. E, a pensarci bene, questa sensazione è coerente non solo con l'approccio di Miller al montaggio, qui realizzato da Margaret Sixel, ma anche con la sua stessa idea di un cinema che sia "musica visiva”: proprio come una nota deve essere sempre correlata a un'altra, allo stesso modo coreografie e inquadrature risuonano insieme seguendo uno spartito preciso. Miller si serve di zoom rapidi, alternati a campi più larghi sulle Terre Desolate, mentre la colonna sonora fragorosa e forsennata di Junkie XL, al secolo Tom Holkenborg, che si era occupato anche di quella di Fury Road, si fonde con il sound design di Robert Mackenzie e Ben Osmo, creando un paesaggio sonoro incalzante che contribuisce a determinare il ritmo, anche nei pochi ma significativi momenti in cui il frastuono si placa e tutto tace.

Ho forse detto bassorilievi di guerra?

Come Fury Road, anche Furiosa è un’opera che trascende dal suo intreccio e colpisce per l'immaginazione e la ricerca di cui trabocca: può sembrare più classica, convenzionale, ma non ho mai avuto la sensazione che si tratti di un riempitivo, come succede per altre saghe che negli altri sono diventate mito (ogni riferimento a Star Wars e alle serie TV collegate non è puramente casuale), che nella foga di riempire i vuoti, di mostrarci tutto quello che accade tra uno iato e l’altro, si sta trasformando in una sorta di paradosso di Zenone cinematografico. No, George Miller è consapevole perfettamente di quello che fa. È uno sperimentatore che porta avanti una precisa poetica ben riassunta da un documentario del 1997 che vi consiglio: 40,000 Years of Dreaming: A Century of Australian Cinema: i film sono una sorta di equivalente visivo delle vie dei canti (songlines) della tradizione aborigena, storie sacre di un’epoca antecedente alla creazione, in cui passato, presente e futuro coesistono, chiamata Tempo del Sogno (dreaming).

Attraverso rituali che coinvolgono danze, musica e arti visive, questi canti veicolano valori fondanti, leggi e informazioni sul territorio. Ecco, tutta la saga di Mad Max - compreso quest’ultimo stand alone su Furiosa - è costruita intorno all'idea, per me travolgente, che guarda al cinema da un punto di vista più ampio, nel tentativo di raccontare una storia che possa intrattenere il pubblico, ma allo stesso tempo riflettere sulle strutture di una delle modalità espressive, quella appunto della storia che si fa mito, che ci accompagna dalla notte dei tempi. E in un certo senso, George Miller stesso, nel mondo da lui progettato, si fa History Man, Custode della storia. Ed è proprio nella lettura con le opere precedenti, all’interno di questo percorso, che Furiosa: a Mad Mad Saga, apparentemente molto classico per architettura narrativa, mostra il proprio, se vogliamo peculiare, spirito sperimentale.

Verdetto

Non ha senso cercare quello che ha reso indimenticabile Fury Road in Furiosa: A Mad Max Saga, dal momento che un’opera del genere credo sia difficilmente ripetibile: ha decisamente più senso leggere questo prequel, che apre l’orizzonte sulle Terre Desolate, come un momento per esplorare un aspetto diverso di una narrazione che George Miller ha coscientemente costruito intorno ai meccanismi del mito e del racconto popolare, senza curarsi della continuity ma andando all’essenza stessa del cinema come mezzo per raccontare storie significative e universali. Da quel punto di vista, nonostante narrativamente Furiosa sembri molto più canonico di quello che ci si aspetterebbe, funziona proprio perché il regista australiano sa come usare i motivi narrativi tradizionali, per creare una grande narrazione epica capace, con naturalezza, di decostruire la stessa idea esemplare di epos e innescare una riflessione, a mio parere, semplice ma non semplicista, sul grande tema sul piatto: che non è la legittimità della vendetta di Furiosa, ma, come dicevo in apertura, la necessità di non rinunciare alla nostra umanità, che si traduce spesso in cura verso le altre persone, in situazioni di crisi. Certo, da questo punto di vista, in Furiosa: A Mad Max Saga, il regista australiano non ci dice nulla che non era stato già detto in Fury Road, ma ci mostra la riflessione da un punto di vista un po’ diverso e soprattutto, dà ancora più risonanza al concetto. Lo fa, senza scegliere la via più semplice e senza dimenticare di dover realizzare una grande opera di intrattenimento. In questo è aiutato dagli stunt spettacolari, dall'incisiva colonna sonora e dalla resa curata del suono. Prova a realizzare un film quasi opposto e complementare a Fury Road, dilungando tempo e spazio nel tentativo di aumentare il respiro. Così facendo, forse sacrifica un po’ il ritmo, sempre incalzante ma altalenante, anche in relazione alla lunga durata del film: ma che importa di fronte a un’opera tanto ambiziosa quanto consapevole? George Miller è uno dei grandi narratori della nostra epoca e, per quanto mi riguarda, Furiosa: A Mad Max Saga non fa altro che ribadirlo ancora una volta.

In questo articolo

Furiosa: A Mad Max Saga

23 Maggio 2024

Furiosa: A Mad Max Saga - La recensione

9
Ottimo
Il mito secondo Miller, ancora una volta.
Furiosa: A Mad Max Saga