"Mi sentivo come Cassandra, la figlia di Priamo, quando vide il maledetto cavallo di legno davanti alle mura della sua città. Il cavallo con dentro"Mi sentivo come Cassandra, la figlia di Priamo, quando vide il maledetto cavallo di legno davanti alle mura della sua città. Il cavallo con dentro gli Achei che avrebbero distrutto Troia e la sua famiglia. Cassandra vedeva la sciagura approssimarsi. E anch’io vedevo la sciagura mentre roteavo la testa con Stevie Wonder che da uno stereo mi dettava il ritmo."
Non è mia abitudine assegnare stelle a racconti autobiografici e memoir. Succede, talvolta, che prevalga l’emozione. Vuoi per la scrittura così gradevole da sembrarti una melodia. Vuoi per un’affinità di pensiero. Fatto sta che “Cassandra a Mogadiscio” sia, per me, un’opera che merita di essere letta, merita di essere in lizza per il Premio Strega e, a mio parere, vincerlo perché questo libro ha sì per protagonista la famiglia Scego e la diaspora somala ma, inevitabilmente, parla di tutti noi.
L’autrice riallaccia fili della sua infanzia e di ciò che precede, ossia la storia dei suoi genitori ancor prima della fuga forzata dal regime di Siad Barre.
Questa è la storia della famiglia Scego: un padre, una madre, una figlia ed un numero indefinito di altri parenti disseminati come schegge dopo un’esplosione.
Tutti legati dal Jirro
” Jirro in somalo significa “malattia”, letteralmente è così, ogni vocabolario ti riporterà questa spiegazione. Persino Google Translate. Ma Jirro per noi è una parola più vasta. Parla delle nostre ferite, del nostro dolore, del nostro stress postraumatico, postguerra. Jirro è il nostro cuore spezzato. La nostra vita in equilibrio precario tra l’inferno e il presente. Siamo esseri diasporici, sospesi nel vento, sradicati da una dittatura ventennale, da una delle più devastanti guerre avvenute sul pianeta Terra e da un grosso traffico di armi che ha seppellito le nostre ossa, e quelle dei nostri antenati, sotto un cumulo di kalashnikov che dalla Transnistria sono sbarcati direttamente al porto di Mogadiscio. Per annientarci.”
Il racconto è ricomposto intervistando la madre e sicuramente quello della memoria è il motore attorno a cui ruotano tutte le questioni dell’essere diasporici. La dispersione mette in risalto tutta una serie di dicotomie che cercano un equilibrio: la lingua madre e la lingua dell’italiano colonizzatore; le ferite inferte dal crudele colonialismo italiano e la persistente negazione degli italiani di quello che è accaduto; l’essere spezzati vs il quotidiano sforzo di riorganizzarsi in cerca di un’unità.
Ci sono pagine molto dolorose come quelle che ci parlano della crudele pratica dell’infibulazione ma anche delle patologica scappatoia che una Igiaba Sciego adolescente trova per scansare il dolore di una madre lontana in mezzo alla guerra civile, la bulimia:
”Vomitando mi illudevo di poter scappare da tutto quello che mi ballava intorno. Il vomito nasceva dalla voglia di mettere ordine in una vita che stava prendendo pieghe impreviste, quella dell’adolescente che ero quando è scoppiata la guerra.”
L’opera assume le forme di una lettera indirizzata alla nipote Soraya che vive in Canada. Non tanto un espediente narrativo quanto un vero e proprio intento di combattere l’oblio della Storia. Le nuove generazioni, infatti, se non aiutate nel sostenere il ricordo sono passibili della dimenticanza.
La scrittrice è al centro di una storia fra due mondi: Europa ed Africa, Italia e Somalia, Roma e Mogadiscio. Lei nata e cresciuta (tranne un anno in Somalia) a Roma non è considerata italiana perché nera ma è chiamata “l’italiana” dai somali.
Questa lettura mi ha fatto riflettere su tante cose. L’indignazione generale per la guerra, ieri come oggi, nasconde una miriade di tragedie private ma altrettanto drammatica è la velocità con cui assorbiamo tutto come consuetudine.
Quanto tempo è passato da quando stavamo incollati a guardare le immagini dei bombardamenti in Ucraina al momento in cui abbiamo inziato a cambiare velocemente canale in cerca di qualcosa di più leggero che non ci faccia pensare?
Lo stesso è successo a suo tempo con la guerra in Somalia. Immagini che crediamo indelebili e poi svaniscono perchè non ci riguardano oalmeno così crediamo. Tanto che oggi quasi nessuno conosce gli eventi e veramente in pochi sanno dell’usurpazione e delle violenze italiane nelle colonie. E’ come se ci fosse un’anestesia generale. Bandita l’empatia. E quando mi capita di leggere/sentire l’odio che respinge e vorrebbe annullare altri esseri umani io sento tutto il fallimento di questa umanità.
"Memoria. Sei saltata in aria su mine antiuomo. Sei stata fucilata in plotoni d’esecuzione sommari e improvvisati. Sei stata stuprata nel deserto da trafficanti ingordi di dollari. Sei stata ridotta a brandelli da autobombe esplose nella notte per conto di mafie e terrorismi. Sei stata crivellata dai kalashnikov in battaglia. E ora sei sfollata in un campo profughi gremito. E poi insultata nelle vie di un Occidente che non ti conosce né ti vuole conoscere. E così intanto evapori. Via. Lontano. Dalle menti. Dai cuori. Dalle schiene che ti sostenevano audaci e incoscienti. Recuperarti dal baratro in cui sei caduta è forse l’unica cosa che possiamo fare se vogliamo guarire davvero. Se vogliamo che il Jirro prima o poi ci lasci in pace."...more
Il romanzo prende l’avvio da un viaggio su una nave.
Toby Hood è, infatti, diretto a Johannesburg dove andrà a sostitu"Un mondo di soprusi"
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Il romanzo prende l’avvio da un viaggio su una nave.
Toby Hood è, infatti, diretto a Johannesburg dove andrà a sostituire un agente della casa editrice Aden Parrot di cui è proprietaria la sua famiglia. Non sa a cosa sta andando incontro e conosce l’Africa solo attraverso i libri ma è entusiasta perché quello che cerca veramente è riuscire a staccare le catene, prendere le distanze da quello che chiama «orgasmo ideologico» di cui sono preda i genitori. Toby, infatti, è infastidito dalle mille battaglie sociali intraprese dai famigliari. Lui, al contrario, vuole solo godersi la vita senza impegni.
Ecco che proprio a Johannesburg gli si offre doppiamente questa possibilità.
Da un lato, frequentando una cricca di gente molto benestante che si raduna nella Casa degli Hollward – proprietari di miniere di uranio- non a caso detta « La Casa Alta ». Dall’altro, bazzicando i quartieri indigeni dove stringe amicizia con il giovane ’africano Steven...
Pubblicato nel 1958, “Un mondo di stranieri” descrive un momento in cui l’apartheid era uno stato d’essere che andava consolidandosi. Qualcosa che c’era ma di cui non si parlava apertamente e dove inglesi e Afrikaner si contendevano ogni briciola della torta mentre chi aveva la pelle nera silenziosamente combatteva per la propria sopravvivenza.
Toby Hood si destreggia fin che può tra due mondi entrambi storditi dall’alcool, entrambi dominati da un genere particolare di solitudine (…) la mancanza di un comune denominatore umano e questo è un mondo di stranieri, un mondo dove non si vuole veramente riconoscersi nell’altro.
” Eccola, la verità. La verità affogata, calpestata, soffocata dalle grida, screditata. Questo giovane con la faccia scura cui il bere e la stanchezza danno una patina polverosa e bluastra, coi denti rovinati e un po' di cispo agli angoli di quei suoi occhi da straniero, questo giovane ed io, due estranei, l'avevamo appena agguantata, a tarda ora nella notte, come un animale fino allora creduto affatto sterminato. Eravamo ubriachi, è vero, ma l'avevamo presa. Era nostra, una verità piccola come un topolino, viva. Fosse pur generato dal bere, ne avevo avuto pochi di momenti come quello, nella mia vita, perfino al mio paese, fra i miei amici. più ancora che comprenderci l'un l'altro, noi volevamo la stessa cosa.”...more
"Rivide la propria vigliaccheria luccicare nella placenta alla luce della luna, e ricordò di quando l’aveva vista respirare. Era la prima volta che"Rivide la propria vigliaccheria luccicare nella placenta alla luce della luna, e ricordò di quando l’aveva vista respirare. Era la prima volta che aveva avuto paura di essere abbandonato."
C’è qualcosa che anche nella disperazione più nera nessuno ci potrà mai rubare: è la libertà di poter sognare. Ognuno ha il proprio paradiso.
Per Yusuf che vive il tradimento dei propri genitori non è facile destreggiarsi in un mondo che gli si muove attorno in un continuo vortice di menzogne e avidità.
Un racconto in bilico dove gli incubi della notte si confondono con le ingiuste crudeltà di ogni giorno. I territori dell’Africa orientale di primo novecento che pullulano di sordidi avventurieri, avidi commercianti. Un coacervo di lingue, popoli e culture che l’uomo europeo usurpatore semplifica nella parola africano come se tutta questa matassa fosse facilmente sbrogliabile.
Yusuf strappato alla famiglia all’età di dodici anni. Solo qualche anno dopo si ritrova ad affrontare un duro viaggio nell’entroterra in un momento in cui le carovane tradizionali di mercanti sono destinate a scomparire sotto l’ombra europea che sovrasta il territorio.
Gli occhi tristi di un ragazzino che tutto osserva e s'illuminano solo nel giardino della casa del suo padrone: un effimero paradiso che fa dimenticare il dolore di essersi annullato.
Romanzo storico, di formazione ma anche di avventura; bellissimo al di là del premio Nobel ricevuto dall’autore.
"Yusuf aveva la sensazione di essersi svegliato da un incubo. E disse a Khalil che spesso aveva avuto la sensazione di essere un animale dalla carne tenera che aveva abbandonato il suo guscio per poi trovarsi in campo aperto, una lumaca miserevole che procedeva alla cieca lasciando una striscia di bava su ciottoli e spine. Questo pensava che fossero tutti loro, che avanzavano a tentoni in mezzo al nulla. E il terrore che aveva provato, disse, era diverso dalla paura. In quei momenti era come se non esistesse veramente, ma vivesse in sogno, sull’orlo della sparizione. E si chiedeva che cosa fosse così forte da spingere la gente a soffocare quel terrore pur di fare i loro commerci"...more
Un grido di dolore, ecco cosa è racchiuso in questo volume di versi mai scritti. Era il 1930 quando il governoQuando la Poesia è un atto di Resistenza
Un grido di dolore, ecco cosa è racchiuso in questo volume di versi mai scritti. Era il 1930 quando il governo fascista italiano decise di spezzare la resistenza della Cirenaica organizzando dei campi di concentramento.
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Ben pochi sanno, infatti che non furono i nazisti ad inventare i campi. Seguendo l’esempio di fine ottocento degli invasori inglesi in Sud Africa, gli italiani, infatti, procedettero a deportare migliaia di persone di ogni età. Marce forzate dove soccombono i più deboli, disumanizzazione, sterminio, stupri, genocidio: tutte cose che gli italiani (Brava gente!) avevano già fatto.
Tutte cose che ancora oggi si negano e si tacciono.
Rajab Abuhweish, poeta libico, era detenuto al campo di El-Agheila, nella Cirenaica sud- occidentale. Senza possibilità di poter scrivere il poeta si affida alla memoria.
Un verso che si ripete come un ritornello o una mia preghiera: “Il mio solo tormento è..”
Un altro prigioniero tornato a casa nel 1934 trascrive scrupolosamente i versi che avevano scandito i giorni dell’inumana prigionia.
“Il mio solo tormento” tuttavia rimane un testo per tanti anni sconosciuto all'Italia.
E’ solo nel 2018 che due artisti, Mario Eleno e Manuela Mosè, ne vengono a conoscenza attraverso la lettura de “Il ritorno” dello scrittore libico Hisham Matar.
I versi avevano solo una traduzione in francese ed è solo in questa edizione che finalmente è stata fatta la traduzione italiana.
Trenta strofe per non dimenticare!!!!
"Mon seul tourment endurer tous les affronts je songe toujours à nos brebis à présent le fouet comme soutien pour nous aider à la besogne ils nous ont confisqué nos biens méprisable est notre vie”
(" Il mio solo tormento sopportare ogni sopruso penso sempre al nostro gregge oggi la frusta come sprone ci hanno confiscato i beni spregevole è la nostra vita")...more
E’ la solita storia: quattro sfigati europei finiscono in Africa. Sfigati perché di solito i soggetti che si a”... intrecci di nomi, vite, destini”
E’ la solita storia: quattro sfigati europei finiscono in Africa. Sfigati perché di solito i soggetti che si avventuravano in questi territori non erano uomini di gran successo in patria e allora chissà perché e chissà come finiscono in lande sperdute dove un uomo poteva avere una seconda possibilità spesso sulla pelle degli altri.
Nel caso specifico, sono quattro commercianti tedeschi che fanno firmare ai capi Doula un accordo di protettorato che di fatto – due giorni dopo- sancisce la nascita della prima colonia (https://it.wikipedia.org/wiki/Camerun...).
La storia del Camerun è quella di un territorio spezzato.
Originariamente per la presenza di oltre 238 gruppi etnici, poi con l’invasione europea che se ne litiga ogni briciola. Germania, Francia e l'onnipresente Gran Bretagna: tutti a tavola e chi tira la tovaglia da una parte e chi dall’altra. Yaoundé (città fondata dai tedeschi a fine ‘800) viene proclamata capitale del Camerun orientale francese; Buea, ex capitale coloniale tedesca, diventa la nuova capitale del Camerun occidentale britannico.
Insomma, un casino.
”La Storia è una Casa dei mille racconti. È una concessione composta da innumerevoli stanze, con passaggi, corridoi, varchi, porte e finestre; un labirinto, sì, un susseguirsi serpeggiante di catene della memoria, ma anche una casa su più piani”
Il romanzo del camerunense Patrice Nganang, è incentrato negli anni ’30.
Njoya, il sultano illuminato, è in esilio nella residenza di Mont Plaisant a Yaoundé quando arriva una nuova piccola" preda". Sara a nove anni é costretta a lasciare sua madre per diventare l’ennesima moglie bambina (ne aveva solo 681!!!) del sultano.
Queste almeno le intenzioni iniziali. Affidata alle mani esperte di Bertha, schiava addetta alla preparazione delle spose, Sara si trova di fronte ad un’inaspettata variazione di percorso quando la donna rivede in lei il figlio perduto. Da quel momento, con pochi accorgimenti, si trasforma in un ragazzo: Sara diventa Nebu.
La voce che racconta questa storia è una voce del presente. Una studentessa americana di origini camerunensi che si reca nel paese di origine in cerca di notizie per la sua tesi sul nazionalismo camerunense. Si chiama Bertha: nome che riaprirà la bocca di Sara ormai novantenne e, fino a quel momento, decisa a non rivelare nulla del suo passato...
Sarò sincera ma l’apprezzamento a questo romanzo lo dedico più ai contenuti che allo stile. L'amalgama tra Storia reale ed invenzione è ben composta ma é l’organizzazione del racconto a non essermi piaciuta. Mi ha creato talmente tanti problemi nel seguire la storia che, ad un certo punto, mi sono lasciata trascinare pur di finirlo, il che non è esattamente una bella cosa ma forse l’unica per riuscire a girare l’ultima pagina:
”Ci sono storie che devono essere raccontate per soddisfare prima di tutto chi le racconta, unicamente per chi le racconta. Dimentichiamoci per un attimo di chi ascolta.”...more
Pubblicato nel 2012, Nostra Signora del Nilo è il quarto libro (l’unico tradotto in italiano) della scrittrice ruandese di etnia tutsi,Scholastique MuPubblicato nel 2012, Nostra Signora del Nilo è il quarto libro (l’unico tradotto in italiano) della scrittrice ruandese di etnia tutsi,Scholastique Mukasonga che vive in Francia dal 1973, dopo essere sfuggita all epersecuzioni.
” Ora ne sono certa, c'è un mostro che sonnecchia in ogni uomo: in Ruanda non so chi l'ha svegliato.”
Siamo in Ruanda negli anni ’70.
Ubicato a 2500 metri di altitudine (”2493, corregge suor Lydwine, la professoressa di geografia.”), Nostra Signora del Nilo è un collegio cattolico dedicato alla Madonna del Nilo, la cui statua troneggia a pochi chilometri più su dove si trova proprio la sorgente del Nilo. E’ una madonna ridipinta di nero un'africana, perché no, una ruandese. .
In alto, dunque per essere più esclusivo, questo liceo femminile, accoglie solo ragazze appartenenti alle famiglie hutu e quindi dell’etnia ruandese al potere. Alla popolazione di etnia tutsi, sono concesse delle quote quindi si aprono i cancelli anche per uno sparuto gruppo di loro.
Le ragazze hutu sono, perlopiù, figlie di pezzi grossi: militari, politici oppure uomini di affari di alto livello. Destinate a matrimoni di convenienza combinati a tavolino:
” Eravamo già buona merce perché siamo quasi tutte figlie di gente ricca e potente, figlie di genitori che sapranno negoziarci al prezzo più alto, e un diploma va ad aggiungere valore a quello che già abbiamo.”
Ribattezzate con nomi europei devono imparare a parlare solo in francese e a mangiare i cibi civilizzati che, molte tra loro, ingoiano a forza sognando i piatti della mamma. Loro sono l’élite femminile.
” dovevano diventare un modello per tutte le donne del Ruanda: non solo buone mogli, buone madri, ma anche buone cittadine e buone cristiane, perché le due cose andavano insieme.”
Accanto a queste donne destinate a uomini di potere ci sono loro, le tutsi, le contadine che, giorno dopo giorno sono sempre meno tollerate. I segni chiari di ciò che sta per accadere nel paese sono un copione già scritto che le ragazze hutu recitano egregiamente muovendosi indisturbate grazie all’ipocrisia degli ecclesiastici e l’indifferenza del corpo docente europeo. Sono terribili prove tecniche di un genocidio: il mostro si è svegliato...
” Perché in Ruanda esistevano due razze. O tre. L'avevano detto i bianchi, era stata una loro scoperta. L'avevano scritto nei libri. Alcuni scienziati erano venuti espressamente per questo, per misurare le loro teste. Ne avevano tratto conclusioni irrefutabili. Due razze: hutu/tutsi. Bantu/hamita. Della terza, non valeva nemmeno la pena parlare.”
“I loro attuali eccessi e il reciproco condono del crimine hanno reso necessario il contenuto senza compromessi di questo libro, perché il primo pas “I loro attuali eccessi e il reciproco condono del crimine hanno reso necessario il contenuto senza compromessi di questo libro, perché il primo passo verso la detronizzazione del terrore consiste nello sgonfiare la sua farisaica ipocrisia. E' solo il primo passo. In qualsiasi popolo che volontariamente si sottopone alla "quotidiana umiliazione della paura", l'uomo muore.” - 14 dicembre 1971- .
L'uomo è morto è un mémoir in cui il drammaturgo nigeriano, Soyinka, raccontò l’arresto e la detenzione che subì tra il 1967 ed il 1969, ossia negli anni della guerra civile nigeriana.
La nazione era divisa a metà tra la Repubblica del Biafra a sud-est guidata dal colonnello Ojukwu e il governo centrale di Lagos retto dal colonnello-dittatore Gowon,
Scritto nel 1971 ma pubblicato in Italia solo nel 1986, sull’onda del Premio Nobel per la Letteratura assegnatogli, L'uomo è morto si apre con una lettera.
Scritta in carcere ed affidata in mani che lo tradirono (diventando così un ulteriore strumento per aggravare le accuse nei suoi confronti e falsificarne delle altre), questa missiva è un vero e proprio atto di accusa che l’autore formula contro il regime e contro la guerra.
Schifato, scrive parole dure contro una società che non vuole più accettare più per la massiccia corruzione, le condotte ingiuste, gli arresti ingiustificati, le politiche di separazione etnica...
Fondamentalmente la sua ribellione è contro l’ipocrisia intellettuale che invece che utilizzare gli strumenti della cultura per farsi sentire gira sistematicamente la testa se non, addirittura, l'abbassa in uno stato di vergognoso asservimento al potere.
Il racconto è suddiviso in tre distinti periodi (Ibadan-Lagos 1967, Kaduna 1968 e Kaduna 1969). Dal momento dell’arresto da parte dei servizi segreti (che lui chiama apertamente Gestapo per la somiglianza delle modalità di azione) si apre uno scenario quasi surreale con interrogatori- farsa che mirano solo a trovare la scusa giusta per la sua detenzione.
Il momento in cui gli mettono le catene è vissuto duramente da Soynka che riflette su questo antico segno di oppressione che ricorda la tratta degli schiavi e si protrae in un presente in cui i ceppi da metaforici che erano (bloccando, di fatto, la libertà di espressione) si fanno nuovamente materiali impendendo anche la libertà del corpo. Ma le sue riflessioni non sono personali perché Soynka denuncia la condizione di asservimento di tutto un popolo.
Il racconto procede con la falsità di accuse precostruite ad hoc per un detenuto famoso e sotto l’occhio degli osservatori esteri; gli scioperi della fame, il rapporto con lo spazio e le guardie. E’, al tempo stesso, un lento scivolare in uno spazio di annullamento e un diario di resistenza.
Un libro duro, non facile anche per i numerosi riferimenti storici e culturali.
Un titolo palesemente significativo: in un regime di tirannia lo schema in cui questa si giustifica prevede l’annullamento dell’umanità attraverso la violenza sia psicologica che fisica.
"l’uomo muore in tutti coloro che conservano il silenzio di fronte alla tirannia”
il messaggio di Soyinka è chiaro: la possibilità, nonostante tutto, di restare 'umani' esiste solo nella ribellione personale a cui dare un senso collettivo.
E penso.. Era il 1967 quando Guccini scriveva " Dio è morto". La musica inizia a diventare strumento di denuncia. Un indice accusatorio che intende distruggere l’ipocrisia sociale. La generazione del ’68 ha poi scrollato le coscienze urlando: «Basta far finta di niente!!!.»
Interessante che in luoghi e contesti così distanti (e non solo geograficamente), da personaggi così differenti siano state fatte riflessioni così affini.
Oggi dopo sessant’anni prendiamo atto che, oltre a dio e all’uomo, sta morendo tutto un pianeta e forse, a differenza di Guccini, pochi di noi credono ancora nella resurrezione......more
Corruzione nigeriana come specchio di modelli occidentali dove certi sistemi sono assodati da tempo. Come figli che cercano maldestramente di se[image]
Corruzione nigeriana come specchio di modelli occidentali dove certi sistemi sono assodati da tempo. Come figli che cercano maldestramente di seguire il modello paterno, gli amministratori e la classe politica nigeriana, scimmiotta e provoca quella catena di flussi migratori. Gente che fugge dalla Nigeria così come da tanti altre nazioni africane dove si pratica una cleptomania legalizzata. La corruzione, insomma, è un sistema che ha radici antiche e non conosce confini.
1620. Francisco José da Santa Cruz è un giovane prete che sbarca nel Regno del Congo per entrare nella scuola gesuita. Dopo poco tempo, il governatore p1620. Francisco José da Santa Cruz è un giovane prete che sbarca nel Regno del Congo per entrare nella scuola gesuita. Dopo poco tempo, il governatore portoghese lo manda in Angola da Ginga sorella del re del Dongo, NGola Mbandi, per farle da segretario. Suo compito è quello di servire con la scienza di disegnare parole ma ben presto dovrà fare ben altro.
E’ un’epoca d’inaudite violenze e soprusi. Il colonialismo ma anche le dure leggi ancestrali mettono a dura prova le credenze di Francisco.
” Violenze, ingiustizie, iniquità a non finire, che a me sembrano ancora più turpi di quelle commesse dagli empi, poiché se quelli ignorano Dio, i cristiani sbagliano in nome Suo.”
Conosciuta col nome di Nzinga è ricordata per le capacità strategiche e di negoziazione con i colonialisti portoghesi ma anche per una forte personalità che non ammette le sottomissioni consuete alle donne.
” Una donna che non si piegava mai; che non aveva un padrone né Dio. Una donna che conosceva le arti della guerra, le sue trappole e dannazioni, e che nel dibattere con i suoi macota pensava meglio dello stratega migliore, poiché, oltre a saper ragionare come un uomo, aveva dalla sua anche l’astuzia perspicace di Eva. .”
Dalla guerra intestina per cui Ginga (che per manovra politica si battezzare assumendo il nome di Donna Ana de Sousa) diventa regina del Dongo, alla guerra inevitabile contro i portoghesi.
Due assi portanti di questo romanzo storico sono da un lato la religione, dall’altro la questione della schiavitù. Un contesto avventuroso in cui non mancano zingari, pirati ed una traversata dall’Africa al Brasile
Voto ★★★½
”Nei tempi antichi, aggiunse, gli africani guardavano il mare e quello che vedevano era la fine. Il mare era una parete, non una strada. Adesso, gli africani guardano il mare e vedono un sentiero aperto ai portoghesi, ma a loro interdetto. In futuro – mi assicurò – quello sarà un mare africano. La strada a partire dalla quale gli africani inventeranno il mondo.”...more
“Avete visto?” disse il presidente. “Un uomo può andare in Inghilterra, diventare un avvocato o un medico, ma il suo sangue non cambia. È come un uc “Avete visto?” disse il presidente. “Un uomo può andare in Inghilterra, diventare un avvocato o un medico, ma il suo sangue non cambia. È come un uccello che prende il volo e si posa su un formicaio. Sempre a terra è.”
Chinua Achebe è l’indiscusso padre della Letteratura africana. I suoi romanzi si sono soffermati su molti aspetti della colonizzazione così come della società post-coloniale, “Non più tranquilli” (“No Longer at Ease”- 1960) è il titolo della recente traduzione che Alberto Pezzotta ha fatto per La nave di Teseo (2017). Segue “Le cose crollano” (titolo anche questo di una recente traduzione sempre per la stessa casa editrice) in quella che è stata denominata “Trilogia africana”. Mentre nel primo libro il titolo si riferiva ad una poesia di Yeats (”The second coming”) in cui parlava della caduta del vecchio mondo rappresentato dal Cristianesimo, qui il riferimento è a T. S. Eliot
"Tornammo ai nostri luoghi, ai nostri Regni Ma ormai non più tranquilli, nelle antiche leggi, Fra un popolo straniero che è rimasto aggrappato ai propri idoli. Io sarei lieto di un’altra morte."
- T.S. Eliot, Il viaggio dei magi-
Obi Okonkwo, protagonista di questo romanzo è il nipote del guerriero Okonkwo che ne “Le cose crollano” rappresentava l’ostinato e cieco legame con il passato tradizionalista che subisce la rovina coloniale. Siamo nel 1956 e il libro si apre con Obi alla sbarra, sotto processo con accusa che ci verrà spiegata andando a ritroso nel tempo.
E’ una Nigeria diversa quella che Achebe racconta dopo “Le cose crollano”. Obi è stato quattro anni in Inghilterra a studiare grazie ad un aiuto economico della sua comunità. La lontananza ha suscitato nostalgia e con il tempo saldato un’immagine mitizzata del suo paese. Torna, pertanto, con tanta teoria come ad esempio il credersi saldamente fermo sui principi morali che si oppongono alla corruzione dilagante del paese. Una volta rientrato, mette a frutto l’ambita posizione di chi ha studiato a casa dell’Uomo bianco ed ottiene facilmente un posto nella Commissione per le borse di Studio.
"Una laurea era come la pietra filosofale. Tramutava un impiegato di terzo livello in un funzionario di primo livello da cinquecentosettanta sterline all’anno, con automobile e un alloggio lussuosamente arredato a canone minimo. Ma la differenza di salario e i vari privilegi erano solo l’inizio. L’unica cosa migliore di occupare un “posto da europei” era essere europei. Una laurea innalzava una persona dalla massa fino a quell’élite che frequentava i cocktail facendosi domande tipo: “Come ti trovi con la macchina nuova?”
Ma cosa è diventato questo paese conquistato dagli europei col bastone e la carota?
Quanto è forte ancora la tradizione nella società nigeriana?
Speranze delusioni pervadono questa storia dove Obi incarna un’imbarazzante incapacità di destreggiarsi tra passato e presente e di attingere con equilibrio da entrambe le fonti.
Un’importante sottolineatura va fatta per quanto riguarda l’aspetto linguistico per la sua essenza plurale e la collocazione che Achebe va a fare nei differenti livelli del discorso. Illuminante, a questo riguardo, la postilla del traduttore che ci spiega innanzitutto come rispetto al primo volume de “Le cose crollano” ci si trovi di fronte ad un uso maggiore della lingua inglese, segno della seconda fase colonizzatrice. Le sfumature, tuttavia sono tanto molteplici quanto fondamentali. In primo luogo l’inglese che chiameremmo scolastico poi quello ripetuto ad orecchio, ma c’è anche:
” il nigerian english, che è un inglese semplificato, di uso pubblico, dalle locuzioni caratteristiche (vedi l’espressione, spesso utilizzata nel romanzo, to know book, che significa “essere istruito, avere studiato”); c’è, occasionalmente, il broken english(quello parlato dal venditore di Madeira); e c’è infine il pidgin english,2 che nei dialoghi del romanzo compare spesso, parlato dai ceti popolari o all’occasione da un locutore che vuole imprimere un tono colloquiale al proprio discorso.”
Spiegazioni doverose dal momento che ogni traduzione non può che dirsi approssimativa nel rendere l’idea di altri suoni, altri contesti culturali.
Achebe ci ha lasciato un’eredità letteraria incommensurabile....more
... Basma Abdel Aziz: scrittrice egiziana, psichiatra, artista visiva e attivista per i diritti umani, soprannominatTra Kafka ed Orwell c’è...
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... Basma Abdel Aziz: scrittrice egiziana, psichiatra, artista visiva e attivista per i diritti umani, soprannominata "la ribelle". Probabilmente ne “La fila” è la donna coi capelli corti: quella che proprio non riesca stare zitta di fronte alle ingiustizie e agli atteggiamenti spavaldi di un mussulmano radicale.
Per l'ambientazione sociale e politica nella forma apocalittica e per amore di sintesi potremmo ridurre il romanzo con l'etichetta del "distopico" o - se volessimo essere più precisi- dovremmo definirlo "ucronico" per la sensazione che ci sia più distorsione di un tempo presente che l'immagine di un futuro apocalittico. Comunque sia, in questo breve romanzo (esordio per l’autrice), non è la componente catastrofica e pessimistica la vera cifra che regge la narrazione.
Siamo in una cittadina che immaginiamo nel Nord Africa, forse l’Egitto stesso. Vige un regime assoluto che stravolge la vita cittadina partendo dalla toponomastica (la città è divisa in aree che hanno numeri romani crescenti andando verso la periferia.) e inoltrandosi nella vita privata di tutti. L’intransigenza della dittatura fa sollevare delle proteste che vengono violentemente sedate e denominate “Sciagurati Eventi”. Questa è l’etichetta che segna un passaggio ulteriore nell'oppressione: da un giorno all'altro, davanti all'inaccessibile Edificio Centrale appare una Porta di fronte alla quale si forma una fila che giorno dopo giorno s’ingrossa sempre più assumendo poi dimensioni chilometriche e diventa La Fila. La gente si accalca e aspetta pazientemente che la Porta si apra. Ognuno, infatti, vuole avere un certificato che risolva i suoi casi personali ma soprattutto è Il Certificato: quello di Buona Cittadinanza quello necessario per fare qualsiasi cosa. Così le case si svuotano e tutto ruota attorno ad una Fila che si anima di un’umanità varia di componenti ma nel suo essere massa si rivela come materia omogenea e facilmente malleabile...
”Si chiedeva cosa spingesse le persone ad attaccarsi così tanto a quella nuova vita che orbitava intorno alla fila, incapaci di immaginare oltre. Non avevano preso con leggerezza la decisione di andare alla Porta coi documenti alla mano: tra loro c’erano professionisti e operai, vecchi e giovani, donne e uomini; non mancava nessuno, persino il più povero dei poveri era lì, e non lo dividevano dal ricco né muri né barriere: tutti si rassomigliavano, avevano lo stesso sguardo e la stessa letargia. E adesso stavano iniziando tutti a pensare nello stesso identico modo.”
Abdel Aziz rimastica Kafka rinnovando l’atmosfera di quel surreale che racconta un incredibile e tangente presente. Ci sono forze invisibili ma al contempo presenti e pressanti che remano contro il popolo che viene aggirato/rigirato e raggirato. Dietro tutto ciò c’è un potere cieco e sordo, che sente tutto ma non ascolta, che guarda tutto ma non vede che se stesso. Questo ci ricorda anche Orwell che poi è soprattutto presente in quella manipolazione della storia e del concetto stesso di verità.
Veramente un libro originale che ha saputo rimaneggiare i tesori della Letteratura per raccontarci gli abissi delle dittature arabe, il pericoloso insinuarsi della testardaggine radicale e la tragedia delle torture. Aziz lavora presso un centro di riabilitazione per vittime di tortura in Egitto. Due elementi che dovrebbero ricordarci qualcosa per una storia che reclama giustizia così come i versi che Laura Vargiu ne “I passi spezzati” ha dedicato al triste vicenda irrisolta di Giulio Regeni:
”Ma svuotati ormai d’ogni preghiera andiamo in cerca del tuo nome e di quei giovani tuoi passi spezzati in quest’abietta landa di disumanità su cui invochiamo cieli tersi di giustizia mentre le loro più torbide menzogne impietosa han già raccontato la verità”
(da “I passi spezzati” di Laura Vargiu, Terza Classificata al concorso “Poesia e Solidarietà” in Trieste, 2019)...more
” Ma questo pensiero solo rimane sempre fisso, non se ne va mai – se solo potessi rinascere nel futuro; allora, forse, nascere donne non significherà” Ma questo pensiero solo rimane sempre fisso, non se ne va mai – se solo potessi rinascere nel futuro; allora, forse, nascere donne non significherà essere marchiate a vita “
Figlia di un missionario tedesco e di una donna inglese, Olive Schreiner cresce in Sud Africa dove trascorrerà la maggior parte della sua vita. Attiva politicamente in difesa dei diritti delle donne, contro la guerra ed il razzismo, conoscerà il successo proprio con Storia di una fattoria africana indicato come uno dei primi romanzi femministi.
Pubblicato nel 1883 con lo pseudonimo maschile di Ralph Iron (Il nome in onore di Emerson, il cognome probabilmente riconducibile alla gabbia di ferro in cui sono costrette le donne), il romanzo racconta la vita di tre personaggi principali: le due cugine Em e Lyndall e il Waldo un pastore apparentemente selvatico ma con le mani e l'animo di un artista.
” Le vicende della vita possono essere dipinte in due modi. Si può adottare il metodo teatrale: esso ci permette di predefinire e schierare in scena ogni personaggio con la sua bella etichetta; sappiamo con immutabile certezza che, al momento giusto, ognuno di loro interverrà a svolgere il proprio ruolo e che, una volta calato il sipario, tutti si presenteranno alla ribalta con un inchino. Questo metodo senza dubbio procura in noi un senso di soddisfazione e di completezza. Ma c’è anche un altro metodo, quello comunemente adottato nella nostra vita di tutti i giorni. In esso non è dato profetizzare nulla. I percorsi s’intrecciano in modo strano e casuale.”
Cosi la Schreiner scrive nella prefazione della ristampa dopo il successo della prima pubblicazione (1883) e dove svelò il suo vero nome. Il tema della casualità fa sì che nella fattoria governata dalla grassa boera Tant’ Sannie (rappresentante la tipica coloniale limitata dai pregiudizi e dalle superstizioni) si presentino, a volte, personaggi misteriosi e bizzarri. Da bambini a giovani adulti seguiamo i tre protagonisti nei loro percorsi di crescita. Un racconto in cui si passa facilmente dal riso alla commozione e dove i meravigliosi paesaggi acuiscono il senso di solitudine. Una storia dove assistiamo tanto all'estenuante ricerca di un dio amorevole quanto alla presa di coscienza delle ingiustizie e all'affermazione dei diritti delle donne. Si ride anche per le caricature di uomini e donne che abitavano quelle sperdute colonie. E ci si sorprende di trovare, in un romanzo di fine ottocento, pensieri così apertamente agnostici (“Dio non esiste!”) e uomini che fanno emergere la propria femminilità travestendosi.
Un libro dei sogni. Di quelli che si fanno, però, ad occhi aperti e delineano le forme di un mondo più giusto.
Intanto attorno a queste bianche vite girano presenze nere, indigeni con cui ci si rapporta come strumenti da lavoro e chiamati con dispregiativo boero “cafri”. L’autrice non li fa parlare e questo rende ancora più vivida l’atroce realtà della colonia sudafricana.
Lettura, per me, molto soddisfacente per il coinvolgimento e la sorpresa Non mi aspettavo, infatti, una trama così ricca di movimento forse perché credevo che un romanzo ambientato nel karoo riflettesse l’aridità statica del suo ambiente.
Ad Olive Schreiner ci sono arrivata tramite Janet Frame che ne parla nella sua autobiografia Un angelo alla mia tavola. Dopo vari anni che ci giro attorno finalmente l’ho letto e il gradimento è stata completo.
” Le sbarre della realtà ci premono da vicino e non c’è concesso aprire le ali perché le urtiamo subito e ricadiamo sanguinanti a terra, ma quando riusciamo a scivolare attraverso quelle sbarre, per inoltrarci nell’ignoto che è al di là di esse, possiamo volare per sempre nel glorioso azzurro, non vedendo altra cosa se non la nostra ombra. E così un’epoca si sostituisce all’altra e un sogno si sostituisce a un altro e nessuno conosce le gioie del sognatore se non è egli stesso un sognatore. I nostri padri avevano i loro sogni; noi abbiamo i nostri; la generazione che verrà avrà i propri sogni. Senza sogni e fantasmi l’uomo non può vivere.” ...more
E’ con sincero dispiacere che boccio questo romanzo. Tre coordinate mi avevano guidato verso questa lettura dopo la lettura di una sua intervista a “IE’ con sincero dispiacere che boccio questo romanzo. Tre coordinate mi avevano guidato verso questa lettura dopo la lettura di una sua intervista a “Il Manifesto” (https://ilmanifesto.it/yewande-omatos...) 1- una scrittrice africana che è anche architetto; nata alle Barbados, trasferitasi prima in Nigeria e poi In Sudafrica; intrecci d’identità; 2 – due protagoniste femminili che si fronteggiano con le loro differenze; 3 – la questione dell’apartheid …
Il mio mancato apprezzamento sta nel fatto che non sono riuscita a farmi coinvolgere nonostante gli ingredienti fossero di mio gradimento. Omotoso crea i due personaggi femminili che con il tempo si sono barricati in robuste armature e distribuisce loro in modo palese le proprie esperienze biografiche: Hortensia è una designer di successo, nata alle Barbados, trasferitasi prima in Nigeria e poi In Sudafricae precisamente a Città del Capo, nell’elegante (e molto bianco) quartiere di Katterijn; Marion è un architetto che in passato ha avuto un discreto successo. Insomma, tutto sembrava predisposto per una lettura interessante e, invece, la magia non si è realizzata. Quell’incantesimo che ti tiene incollata ad un libro per cui ogni interruzione ti fa irritare. Non è andata così. Non mi sono piaciuti i personaggi (nessuno!) e non m’interessa granché l’architettura. Quello che emerge bene dal racconto è la questione dell’apartheid: quella pagina della Storia dove il concetto di Vergogna è qualcosa di più profondo di un semplice turbamento. E’ qualcosa da cui devi girare la faccia per quanto faccia male. Un tema importante che, tuttavia, non è bastato a farmi piacere questo romanzo…
«Cosa ne sarà di noi se smettiamo di porre domande?»
Dopo una telefonata inaspettata, un anonimo scrittore si ritrova, suo malgrado coinvolto nella «Cosa ne sarà di noi se smettiamo di porre domande?»
Dopo una telefonata inaspettata, un anonimo scrittore si ritrova, suo malgrado coinvolto nella vita privata e pubblica di Ben Du Toit; una conoscenza universitaria, strade che si dividono finchè ci si ritrova catapultati in una vicenda drammatica.
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Tutto comincia con una manifestazione studentesca. Siamo a Soweto ed è il 16 giugno 1976.
”In realtà, per quanto riguarda Ben, tutto cominciò con la morte di Gordon Ngubene. Ma dalle sue annotazioni successive, e dai ritagli stampa, è ovvio che la faccenda risaliva a molto tempo prima. Risaliva almeno alla morte del figlio di Gordon, Jonathan, grosso modo all’epoca dei moti giovanili a Soweto.”
Ben è un insegnante: è bianco, agiato ed appartenente ai gruppo degli afrikaaner, ossia il ceppo olandese che discende dai boeri colonizzatori delle terre sudafricane. “Un’arida stagione bianca” è la storia di un risveglio. Non un preciso momento in cui gli occhi si aprono ma una lenta e graduale presa di coscienza dopo un lungo sonno. [image]
Crescere anestetizzati di fronte alle ingiustizie e al dolore di altri esseri umani, anzi crescere con l’idea ben inculcata che gli altri non sono essere umani.
Un romanzo che parla di solitudine ma anche di caparbietà. Di fronte un muro compatto fatto di omertà e in uno stato dove la Polizia di Sicurezza, di fatto, agisce senza limiti legali e morali. Ben varca una linea e non può - e non vuole- più tornare indietro, costi quel che costi..
Una storia molto forte che ci racconta di doveri imprescindibili a cui ognuno ricorre a modo suo. così allo scrittore non rimane che la penna
"Forse l’unica cosa che posso sperare, tutto ciò che mi è dato, è solo questo: scrivere. Raccontare quello che so. Per fare in modo che nessuno possa più dire: «Non ne so nulla».
Molto forte, molto coinvolgente. Qualcosa che rimane dentro..
"«Io non penso di aver mai veramente saputo, prima. O, se sapevo, non mi sembrava che mi riguardasse direttamente. Era, come dire… il lato oscuro della luna. Anche se uno prendeva atto della sua esistenza non doveva necessariamente conviverci.» Una breve pausa, l’accenno di un sorriso. «Ora invece la gente ci è sbarcata sopra.»"
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UN’ARIDA STAGIONE BIANCA
"E’ un’arida stagione bianca le foglie scure non durano, si seccano le loro brevi vite e con il cuore spezzato si tuffano gentilmente verso la terra senza nemmeno sanguinare.
E’ un’arida stagione bianca, fratello, solo gli alberi ne conoscono la pena quando stanno ancora eretti ma secchi come acciaio, con i rami secchi come fili di ferro, davvero, è un’arida stagione bianca ma le stagioni poi passano…" ************************* Mongane Wally Serote (Sophiatown, 1944) scrittore e poeta sudafricano legato al movimento di lotta al regime dell'apartheid.
“Solo i forti possono mantenere la rotta nelle paludi della Storia.”
Il pensiero che faccio da subito –ancor prima di aver aperto questo libro- rigu “Solo i forti possono mantenere la rotta nelle paludi della Storia.”
Il pensiero che faccio da subito –ancor prima di aver aperto questo libro- riguarda la singolarità di esordire nel mondo della letteratura con un titolo che mette a fuoco il momento del declino.
[ Crepuscolo – la luce del sole si affievolisce, le ombre cominciano a stiracchiarsi allungando i propri contorni, l’occhio guarda ma fa fatica a definire le figure, c’è la sensazione di essersi lasciati alla spalle ogni cosa (“quel che è fatto è fatto”). ]
Dunque qui s’incontra l’inizio con la fine. E’ il 1974 quando questo libro viene pubblicato (in Italia arriverà dopo 29 anni: nel 2003!) e John Maxwell Coetzee è rientrato in Sud Africa. Gli Stati Uniti, infatti, hanno respinto la sua richiesta di residenza dopo la sua partecipazione alle proteste contro la guerra in Vietnam e al conseguente arresto.
Le Terre al Crepuscolo si riferiscono al graduale ed inesorabile scivolare del genere umano in una spietata lotta bestiale. Mentre gli animali, però, lottano per la sopravvivenza l’uomo lotta per avere una supremazia di diritto esistenziale. Ogni conquista – dai tempi remoti agli attuali, da lande selvagge a nazioni industriali, sempre e dovunque- ci parla del bisogno dell’Uomo di dichiarare l’Altro come essere talmente inferiore da non essere considerato degno di appartenere alla razza umana.
Questo esordio di Coetzee è ben lontano dall’essere una timida e sommessa entrata nel mondo della Letteratura. E’ un vero pugno allo stomaco, anzi due, dato che si tratta di due racconti.
Entrambi ci parlano in prima persona nella forma del mémoir. Entrambi chiamano in causa l’autore-
Il primo racconto s’intitola ”Progetto Vietnam” .
Eugene Dawn è uno specialista di mitografia e il suo dipartimento -presieduto dal Prof Coetzee (!!!)- ha avuto l’incarico di condurre studi sul condizionamento psicologico nella guerra in Vietnam. Attraverso l’analisi dei miti, Dawn deve redigere un rapporto che valuti i risultati della guerra psicologica condotta attraverso i programmi radiofonici.
” Scopo della guerra psicologica è distruggere il morale del nemico. La guerra psicologica è la funzione negativa della propaganda: la sua funzione positiva è diffondere la convinzione che la nostra autorità politica è forte e durevole. Se lanciata in modo efficace, la guerra di propaganda indebolisce il nemico riducendone la base civile e il bacino di reclutamento e rendendo i suoi soldati, in battaglia e dopo, piú inclini alla defezione, rafforzando al tempo stesso la lealtà della popolazione. L’importanza del suo potenziale politico-militare non può dunque essere mai sottolineata abbastanza.”
Un compito che per Dawn risulterà fatale. L’analisi dei fatti e soprattutto la visione delle fotografie scattate dai soldati americani sgretolerà la psiche di questo uomo. E allora di declino di un uomo sarà speculare di quella cinica società che agisce nascondendosi dietro le bandiere.
” Purtroppo non riesco a fare un lavoro creativo in biblioteca. Il fervore creativo mi prende solo nelle prime ore del mattino, quando il nemico che ho in corpo è troppo addormentato per erigere mura difensive contro le incursioni del cervello. Il rapporto sul Vietnam è stato composto guardando a est, verso il sole che sorge, e con addosso il rimpianto pungente (poindre, pungere) di trovarmi inchiodato qui, nelle terre del crepuscolo. Niente di tutto questo si riflette nel rapporto. Quando ho un compito da eseguire, lo eseguo.”
Il secondo è ” Il racconto di Jacobus Coetzee” .
Confesso di non aver capito se Jacobus Coetzee sia personaggio immaginario o un reale avo dello scrittore. In ogni caso, anche qui abbiamo un memoriale ma siamo catapultati in un’altra epoca e in un altro continente. Siamo nella seconda nel 1760 nei territori sudafricani. Jacobus Coetzee è un allevatore ma anche cacciatore: una vita di frontiera divisa tra le richieste dell’olandese Compagnia delle Indie e la necessità di sopravvivere in un ambiente ostile. Il racconto parla di un viaggio verso sud con lo scopo di cacciare elefanti. Si tratta di un resoconto di un esploratore e del primo contatto con un mondo sconosciuto: flora, fauna e popolazioni che fino a quel momento non si erano mai incontrate (si parla ad esempio della giraffa come animale mia visto prima). Gli indigeni già conosciuti sono classificati tra ottentotti (già assoggettati) e boscimani (selvaggi e indomiti). Il viaggio, però, condurrà all’incontro con un popolo dei Namaqua -che non aveva mai visto l’uomo bianco- e si trasforma ben presto in uno scontro…
”L’avanzata dell’uomo verso il futuro è storia; tutto il resto – il suo gingillarsi lungo il cammino, il suo ripercorrere la stessa strada – appartiene all’aneddotica, alle serate intorno al fuoco.”
Due racconti che parlano la lingua del colonizzatore e con forza denunciano i soprusi del potere al di là di ogni confine di tempo e luogo.
Did you want to see me broken? Bowed head and lowered eyes? Shoulders falling down like teardrops, Weakened by my soulful cries?
Still arrise u>(Maya Ang Did you want to see me broken? Bowed head and lowered eyes? Shoulders falling down like teardrops, Weakened by my soulful cries?
Still arrise u>(Maya Angelou)
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Era il 2006 quando durante il famoso show di Opraph Winfrey, Clemantine e la sorella Claire si ricongiungono ai genitori: erano dodici anni che non si vedevano.
Kigali (Ruanda): Clemantine ha sei anni quando –affidata alle cure della nonna- è costretta a scappare con la sorella quattordicenne Claire. Una fuga che dura sei anni attraverso sette nazioni africane. Violenze, soprusi, crudeltà, lotta della sopravvivenza. Nulla d'inventato. Non è un romanzo, questo...purtroppo...
Tasselli che occupano lo spazio svuotato della propria identità. Una bambina che dovuto disfarsi della sua infanzia da un giorno all’altro.
Wamariya alterna i capitoli muovendosi nel tempo e nello spazio: Rwanda, Burindi, Zaire, Tanzania, Malawi, Mozambico, Sud Africa, Mozambico, Tanzania, Zaire, Zambia, Stati Uniti d’America.
La testimonianza è un percorso a doppia entrata. Da un lato c’è il testimone, con i suoi incubi. Dall’altro c’è chi si pone in ascolto con i suoi limiti geografici e culturali. Una doppia entrata è doppio valore.
Accogliere le testimonianze e diffonderle ci permette di entrare nella storia in un modo che nessun libro di storia potrà mai fare. Lo storico impugna la penna della ricostruzione fatta con raziocinio e caratterizzata dalla distanza. La testimonianza è l’umanità con tutta il proprio essere. Sono occhi che hanno visto, mani che hanno toccato, corpi che sono stati violati, voci che cercano parole che traducano gli orrori.
“La ragazza che raccontava perline” è una favola ruandese che la tata Mukamana le raccontava prima che il suo mondo si spezzasse.
” Ogni giorno, forse ogni ora, supplicavo Mukamana di raccontarmi storie che mi aiutassero a dare un senso al mondo, come quella degli dèi che scuotevano l’oceano come un tappeto per formare le onde. La mia preferita era quella di una bambina bellissima e magica che vagava per la terra, con un sorriso che spandeva perline. Quando Mukamana mi raccontava quella storia, mi diceva: «Secondo te cos’è successo dopo?» e qualsiasi cosa dicessi, qualsiasi futuro immaginassi, Mukamana lo avrebbe fatto diventare realtà.”
Come può spiegarsi il mondo, visto dal suo lato più truce, una bambina di sei anni? La fiaba è qualcosa che mitiga l’orrore. E’ il rifugio, il conforto.
La testimonianza di Clemantine è un grande lavoro su se stessa. Giorno dopo giorno raccoglie i pezzi che devono ricostruire la propria unità. La bambina che il giorno prima giocava serena col suo fratellino e si trova ad affrontare cose che non conosce.
Giorno dopo giorno costruisce la sua armatura e cammina nel campo profughi (uno dei tanti) ripetendo: ” «Sono Clemantine. Sono una che vale qualcosa. Sono una lottatrice. Sono un essere umano».”
Indimenticabile ed importante. Ho copiato interi paragrafi. Vi lascio qualcosa ma non aspettatevi stellette: mi sputerei in faccia se avesse la presunzione di giudicare la vita altrui come fosse un giochino…
” La mia mente salta dal terrore e dal caos ai colori. Dico: «Era blu. Era verde». La memoria mi fa desiderare di bruciare tutto, di radere al suolo la galassia intera, e il mio cervello non regge il gioco. Ma devo continuare a provarci, dobbiamo continuare a provarci. Devo trovare il modo di dirvi: «È successo questo. Sono venuti degli uomini, che hanno cercato di distruggere il mio corpo e demolire il mio futuro. Ma nessuno mi può rovinare». Lo stupro è la storia delle donne e della guerra, delle ragazze e della guerra, centinaia di migliaia di madri, di figlie, di sorelle, di nonne, di cugine e di zie solo nel mio paese, centinaia di milioni in tutto il mondo. Tanti uomini sono stati uccisi nei massacri. Tante donne sono morte in seguito di AIDS. Lo stupro, lo strazio – fisico, psicologico, sociale – hanno continuato ad aleggiare, per decenni dopo la guerra, anche negli spazi più ripuliti, sofisticati, privati.”
” Claire aveva un’idea intuitiva delle scosse di assestamento postcoloniali, degli effetti perduranti di stranieri venuti a salvare, illuminare e modernizzare l’Africa. I coloni, i volontari, le ONG… fanno tutti parte della stessa sequenza: estranei condiscendenti, che danno per scontato di essere più intelligenti e più bravi e offrono regali luccicanti, destabilizzanti, che inducono dipendenza. Come puoi accettare qualcosa dai cosiddetti salvatori, se i loro predecessori hanno aiutato la tua gente ad autodistruggersi?”
”Una grossa parte del Ruanda, e del mondo, deve affrontare questo problema. Quando sei traumatizzato, il tuo senso di identità, la tua individualità, subisce un colpo. Il colore della tua pelle, il tuo passato, la tua sofferenza, la tua speranza, il tuo genere, la tua fede… tutto è insozzato. Queste parti essenziali di te ti vengono rubate. Tu, come persona, sei svuotato e distrutto, e questa violenza, questo furto ti impediscono di incarnare una vita che ti dia la sensazione di essere tua. Per continuare a esistere, come persona intera, hai bisogno di ricreare per te stesso un’identità che non sia toccata da tutto ciò che è stato usato contro di te. Hai bisogno di immaginare e costruire un’identità a partire da qualcosa che non sia compromesso. Hai bisogno di ricostruirti alle tue condizioni. Ora capisco che, per riuscirci, ho bisogno di qualcosa di più degli oggetti ficcati in una valigia. Ho bisogno di capire la mia storia, una storia profonda. Conosco i fatti del genocidio: la ferocia intenzionale degli omicidi, l’uso dello stupro e la diffusione dell’HIV come strumenti di guerra. Ma questo non basta. Quel passato, quella storia, non può riempirmi. Ho bisogno di una storia più lunga, più vasta, più pienamente umana, una storia che non sia tutta imbevuta di sangue. Ho bisogno di chiarezza, di prospettiva, di gioia, di bellezza, di originalità, di intelligenza, di una visione a tutto campo. Ma la verità è che già so come fare il prossimo passo della mia vita, ed è semplice. Ho bisogno di essere coraggiosa e vulnerabile. Ho bisogno di protendermi nello spazio, di prendere la mano di mia madre e condividere la mia gioia e il mio dolore. È così difficile.”
- Libri- - La notte di Elie Wiesel - Desideriamo informarla che domani verremo uccisi con le nostre famiglie di Philip Gourevitch. - Sula/L’occhio più azzurro Toni Morrison - Infedele,di Ayaan Hirsi Ali, - Storia naturale della distruzione, /Austerlitz di Winfried Georg Sebald. - Audre Lord (mai tradotta in italiano!)...more
” E mi dico, dentro di me, che, oh mio Dio, la guerra è proprio una gran brutta cosa. La guerra è bere piscio e morire, e quell’uniforme che ci danno ” E mi dico, dentro di me, che, oh mio Dio, la guerra è proprio una gran brutta cosa. La guerra è bere piscio e morire, e quell’uniforme che ci danno da portare serve soltanto a ingannarci. E chiunque pensa che quell’uniforme sia tanto bella è un fesso che non sa cosa vuol dire buono o cattivo o non proprio buono o proprio tanto brutto.”
Impiccato per uso improprio di parole!
Chi era Ken Saro-Wiwa? Un delinquente letterario? Fin da piccolo affinò l'arte di maneggiare le parole. Niente lo fermava e dimostrò abilità inaudite con la lingua del sangue: la lingua Kana, dialetto del suo popolo, il popolo Ogoni. Ma non dimenticava la lingua del popolo: il pidgin, frullato verbale, zona di confine degli idiomi e delle culture. E poi la lingua matrigna dominatrice: l'inglese imparato sui libri.
Così Ken Saro-Wiwa cresceva e come un giocoliere, giorno dopo giorno, faceva acrobazie con le parole. Un gioco, un passatempo. Man mano, però, che s'inoltra nell’universo dei vocaboli scopre il potere del linguaggio e diventa professore. Finchè un giorno scopre che non gli basta insegnare ma sente la necessità di usare le parole per descrivere il mondo africano: che impudente!!
E allora, non solo comincia a scrivere racconti e romanzi ma - addirittura- scrive e produce la prima e più seguita sit-com africana («Basi and Company») e riesce a comunicare con il popolo.
Le parole però, si sa, sono ribelli a volte scappano e non solo tradiscono il pensiero ma si mettono a lottare.
Ma saranno le parole scritte in Sozaboy, pubblicato nel 1985, a condannarlo?
Oppure saranno le parole urlate che scendono nelle piazze e che si schierano con il (suo) popolo Ogoni e che reclamano giustizia per i soprusi subiti da parte delle multinazionali petrolifere?
Qualcuno ha deciso; altri hanno avvallato; altri ancora hanno offerto le mani come strumenti di morte.
Il 10 novembre 1995 Ken Saro-Wiwa viene impiccato con modalità raccapriccianti:
” Fecero male il nodo scorsoio del cappio e per ben quattro volte hanno dovuto lanciare il corpo di Ken oltre la botola. Il cappio non gli spezzava il collo ma lo strozzava semplicemente, allora lo ritiravano su. E lui – è scritto, lo ha testimoniato un poliziotto – ripeteva: «Ma perché mi fate questo? Com’è possibile?» Quattro volte. Alla quinta il nodo ha funzionato. E Ken è morto.”
Un’esecuzione che ha smosso coscienze internazionali tanto da rinviare a giudizio come diretta responsabile di questa morte una delle più grandi compagnie petrolifere mondiali: il nome “Shell” non vi dice niente?
Proprio dieci anni prima fu pubblicato Sozaboy un impasto, un amalgama di linguaggi che si sprigiona a partire dal titolo. Soza, infatti, è forma alterata di soldier . Non è “pidgin” ma qualcosa che va al di là è lingua del popolo dove le parole si ripetono dopo essere masticate nella bocca di un adolescente.
Meme, protagonista, del romanzo ha quindici anni e come tutti suoi coetanei vive con passione sia il tempestoso richiamo ormonale sia la propensione alla fantasia. L’immagine di un futuro radioso a cui tende e cerca di costruirsi imparando a fare l’autista degli autobus e sposando la bella Agnes con quella razza di tette. Quello che è peculiare rispetto agli adolescenti di altri paesi è il ritrovarsi in un contesto di guerra. L’ingenuità con cui vive Meme è comica. In questo libro si ride salvo poi sentire un senso di colpa per la consapevolezza della tragedia che nasconde. La guerra che Meme si trova a combattere è la guerra civile del Biafra. Il ragazzo non capirà mai le ragioni di quel conflitto. L’idea di essere valoroso, lo scintillio del fucile saranno un’inevitabile attrazione. Sicuramente è un romanzo di formazione nella definizione classica in cui le esperienze narrate trasformano la coscienza del protagonista. Già dall’incipit (Il NUMBERO UNO) lo starter è impostato sull’innocenza di chi non sa, non conosce la brutalità:
” Comunque, all’inizio, tutti erano contenti a Dukana. Tutti i nove villaggi danzavano e mangiavano un sacco di mais con le pere snocciolando racconti sotto la luna. Perché il lavoro dei campi era finito e l’igname stava crescendo proprio bene. E perché il vecchio governo cattivo era morto ed era arrivato un nuovo governo, un governo di sozasoldati e di polizia. Tutti dicevano che sarebbe andato tutto bene a Dukana poiché c’era un nuovo governo.”
Poi, un giorno arriva la paura e, giorno dopo giorno, Meme si convince di dover fare il soldato e il suo nome diventa “Sozaboy”…
” Prima di questa storia, non sapevo mica cosa voleva dire morire. Tutta la mia vita era fatta soltanto di dolci sogni. Ma ora, proprio da questo momento, non vedo mica più la vita come la vedevo prima: la vedo piena zeppa di cattiveria. E so che la mia vita deve, all’improvviso, cambiare.”...more
”Siamo noi i sognatori” è il libro di esordio della giovane scrittrice camerunense (dal 2014 ha cittadinanza americana), Imbolo Mbue. Qual è stato l’in”Siamo noi i sognatori” è il libro di esordio della giovane scrittrice camerunense (dal 2014 ha cittadinanza americana), Imbolo Mbue. Qual è stato l’ingrediente stuzzicante di questa storia a far sì che Imbolo Mbue sia stata la prima scrittrice africana a ricevere un milione di dollari di anticipo e i diritti di sfruttamento cinematografico per il suo libro?
Forse è il tema generale che sulla scia del caro tema dell’ American dream ne ribalta i termini. I protagonisti, Jende e Neni, si ritrovano, infatti, a New York con la speranza di crescere i loro figli in America. Jende trova lavoro come autista di Clark Edwards, agente della Lehman Brothers mentre Neni lavora come assistente domiciliare mentre studia al college. La prima parte della storia è un alternarsi tra queste due famiglie: la povera famiglia africana che trema di fronte alla prospettiva di essere espulsa dal paese e quella ricca e bianca che è tormentata da un altro genere di problemi. Allo stesso tempo sono protagonisti i rapporti tra le coppie. Nella seconda parte emerge maggiormente la travolgente crisi economica e la prospettiva dell’elezione del primo presidente afroamericano della storia. Se ci sono critiche alla politiche sull’immigrazione sono condotte con toni pacati e comunque sostenute da sparsi elogi alla grandezza stelle e strisce. La scrittrice Imbolo Mbue ha duramente lavorato per raggiungere il suo sogno americano ma non c’è un riflesso di questo nella storia che ci racconta. In realtà, sbriciola implacabile ogni speranza. Il messaggio lo si può leggere anche come invito a ritornare sui propri passi senza provare vergogna perché l’importante è vivere con serenità. Nel complesso una lettura godibile ma abbastanza stereotipata. Mi è dispiaciuto che una giovane autrice non abbia usato il potere della penna per dipingere un quadro diverso per la donna africana. Mbue crede, invece, sia meglio che rimanga al suo posto: sottomessa e felice solo come appendice secondaria dell’uomo. Una scrittura, inoltre, che non mi ha stuzzicata forse perché alle mie orecchie è suonata più come una chiacchierata tra amici che un prodotto letterario… Tre stelle (forese sarebbero due e mezzo...) per aver trattato argomenti importanti anche se con modalità con cui non mi trovo d’accordo. ...more
Quando ho cominciato a leggere questo libro di sogni non ne vedevo ma di polvere sì. Polvere che André Brink mi gettava negli occhi riga dopo riga conQuando ho cominciato a leggere questo libro di sogni non ne vedevo ma di polvere sì. Polvere che André Brink mi gettava negli occhi riga dopo riga con quella scrittura così poco autosufficiente tanto da dover chiedere continuamente il sostegno al lettore: ammiccando con fare (forzatamente) spiritoso. Un espediente che trovo irritante.
Kristien – protagonista a e voce narrante- emigrata a Londra, torna a casa dopo tanti anni, in Sud Africa. Sua nonna sta morendo dopo le ferite causate dal fuoco che hanno appiccato alla sua casa. Dunque Kristien salta su un aereo e comincio ad odiarla da subito ma pare che, su questo fronte, l’autore ci tenga a stuzzicare chi legge, infatti scrive:
”Nell’eventualità che abbiate intenzione di passare qualche altro centinaio di pagine in mia compagnia, immagino che avrei dovuto darci dentro fin dall’inizio per fare un’impressione migliore. Può darsi che mi abbiate già presa in antipatia. Mea culpa. Per molti aspetti non sono una persona gradevole. Posso essere cattiva, piena di pregiudizi, petulante, vendicativa, inaffidabile, fate voi
Kristien è bella, brava, capace, coraggiosa, sfrontata come solo le dure sanno essere… Kristien parla una lingua forbita. Ha vissuto una doppia cultura per cui il suo inglese esotico si è raffinato in terra di Albione:
”Ma non potrà mai essere la mia lingua d’origine. E ho pure delle pretese di magniloquenza. Mi viene da dire “bramoso” là dove basterebbe “desideroso”, o “procedere” invece di un semplice “andare”. Perciò siete avvertiti. Dovrete prendermi per quella che sono.”
Tutto questo ha creato le basi per una mia profonda avversione verso questo personaggio, questo scrittore, questo libro. La lettura della prima parte mi ha messo fortemente a disagio perché non riuscivo a capire come far combaciare gli entusiasmi di altre lettrici/ori con un avvio così seccante per il tono (e lascio stare gli strafalcioni che potrebbero essere imputati alla traduzione, come ad esempio “la pelle a buccia di limone”!!!) Ho deciso di continuare proprio per capire dove stava la meraviglia di questo romanzo e devo dire –ancora una volta- che spesso l’ostinazione paga.
Se la prima parte è stata così poco invitante la seconda ha iniziato a scivolare meglio e, paradossalmente, grazie a due elementi contrapposti: da un lato i racconti surreali di Ouma (la nonna)che contribuiscono a rendere l’atmosfera più magica; dall’altro qualcosa di molto più tangibile e reale, quella cosa che si chiama Storia.
Siamo nel 1994 quando Kristien torna a casa ed è proprio la vigilia dell’elezioni. Le prime elezioni a suffragio universale dove si candidava Mandela. Questi due aspetti fondamentali del romanzo mi hanno trascinato in una storia vorticosa dove ci si immerge in un’affascinante epica matriarcale. Ouna racconta di fantasiose progenitrici: pioniere nella lotta di liberazione femminile, combattive in un mondo selvaggio, senza nessuna catena e ammantate di un’aurea magica. Un passato glorioso ed un presente in cui le donne sono ancora tenute al guinzaglio convinte di essere inferiori. L’immaginaria cittadina di Outeniqua è il modellino congeniale per descrivere le atmosfere tese di un’epoca così lacerata nel suo tessuto primario e di una terra stessa edificata su una mole di conflitti coloniali e razzisti.
Così la mia lettura è andata avanti ed è successo quello che non mi aspettavo e mai avrei scoperto se non avessi una vena di caparbietà in me: ho cominciato ad apprezzare Kristien questo personaggio così borioso che ho scoperto essere una fragile bambina che attraverso il dolore impara a camminare… “….Kristien, sei una ragazza grande, ormai.”
” (…) la verità che si maschera di tante tristi bugie; immacolate concezioni e stupri per vendetta; le fantasie di un mondo di frontiera, tutte così smisurate, le esagerazioni di una mente sull’orlo della morte, o la visione di una verità più profonda e più oscura? Importa qualcosa, fa qualche differenza? Io ho ascoltato questa donna, ho scritto tutto ciò che ha detto, me ne sono appropriata, ho rivendicato ogni cosa come mia. E così le storie, e con loro la Storia, si mescolano con il flusso degli eventi che mi ha trascinato con sé nella giornata appena trascorsa (…)”...more
Zohra -voce narrante- è una donna tatuata nata e cresciuta nel deserto. Il suo popolo è da sempre quello che cammina: un eterno movimento che non si può ridurre definendolo semplicemente come un differente stile di vita. Il nomadismo cambia la prospettiva con cui si osserva e si giudica la vita stessa. E’ qualcosa di molto profondo che porta ad un legame indissolubile.
Una serie di eventi, tuttavia, costringono Zohra a fermarsi. La vita immobile, sedentaria la fa soffrire e, dunque, si aggrappa a ciò che ha di più prezioso. E' un talento, un dono della natura: l’arte di narrare. Come un giocoliere si destreggia con le parole e così tramanda la storia del suo popolo: les hommes qui marchent.
” Ma l’avventura più pittoresca che Zohra amava raccontare era quella di Jellùl, soprannominato “Bùhalùfa”, l’uomo del maiale.”
Bùhalùfa abbandona il suo popolo inseguendo un sogno: quello della scrittura. Dalle sue avventure e da quelle che verranno dopo di lui prosegue il racconto.
Una saga famigliare, quella degli Ajalli, che galoppa nel tempo e a cui si affiancano gli eventi della Storia: la Seconda guerra mondiale e i movimenti anticoloniali, la Guerra d’indipendenza, l’Islam…
Il fulcro del racconto è essenzialmente al femminile. Ben presto la vera protagonista appare: è Leyla – nipote di Zohra – e lei sarà l’erede destinata a cambiare le regole.
La condizione della donna araba, già segnata alla nascita dal disprezzo, dal marchio indelebile d’inferiorità é accettata sì ma come una sorta di maledizione a cui non ci si può sottrarre.
La sottomissione coloniale che voleva i Bougnoul (così i colonialisti francesi chiamavano in modo dispregiativo gli arabi autoctoni) relegati solo ai lavori manuali vale per le donne come doppia oppressione.
La storia di Leyla riflette la storia reale della stessa autrice e ci accompagna in una lotta portata avanti tra grandissime sofferenze per potersi liberare da pesanti e arcaiche catene. Oltre alla tradizione che la vuole sottomessa c’è la scuola a cui – eccezionalmente- le è permesso di andare. L’istruzione, però, è il dominio dei colonialisti, di un'altra cultura che non accetta compromessi:
” La bambina viveva nel deserto, ai piedi della Barga, la sua duna, e a scuola le si chiedeva di disegnare uno chalet montano o una casa di campagna, cose che lei non aveva mai visto. Che aberrazione! Questo la riempiva di una strana sensazione d’irrealtà che le faceva tintinnare in testa tanti campanelli dissonanti…”
Leyla soffre e si sente spezzata e contesa tra due lingue, due culture mentre la tradizione che continua a nutrirsi di pratiche primitive che sottomettono e violano corpi e menti femminili fin da bambine. I pied-noirs che- tranne poche eccezioni – non perdono occasione per comunicare la propria superiorità in un continuo ripetersi di umiliazioni.
Insomma, un continuo essere schiacciate da ogni lato fino alla beffa dell’indipendenza quando:
” (…) la prima preoccupazione degli uomini fu quella di segregare, di nascondere le loro donne. Libertà, sì, ma non per tutti. Bisognava rimettere subito le cose in ordine, rivalutare le tradizioni e non abbandonarle all’ebbrezza e alle ciance! Per questo eressero rapidamente barriere cieche, cancrene di facciate. Bisognava nascondere le donne ad ogni costo, anche dietro un cumulo di immondizie. Allora circondarono le proprie compagne di orrori e di brutture, nel seno stesso della bellezza. Come per mantenerle nell’antica condizione. La libertà non era per le donne.”
I francesi passano il testimone a qualcosa di peggiore: gli integralisti, L’Islam. Più subdolo e dunque più potente del colonialismo, l’oscurantismo s'insinua nelle case, nella vita quotidiana e si appropria di facilmente di corpi e menti:
Prima un foulard...
” Un foulard? Era sempre così che tutto incominciava: foulard, fùta e poi il velo e la morte di ogni sogno, di ogni speranza, sotto una valanga di gravidanze; e l’universo che si restringe, si restringe fino a non permettere più altro che i dolorosi aneliti della schiavitù, che i sospiri della rassegnazione. Meglio la morte, quella vera, che sotto qualche palata di sabbia avrebbe accolto e protetto il riposo, piuttosto che lo strangolamento del foulard, piuttosto che il sacrificio di tutte le scelte di una vita!”
E poi un hayk (velo)...
”Poi aggiunse: «Sai, è molto pratico: un hayk è la tranquillità dell’anonimato. Io metto il velo e vengo lasciata in pace. Per strada, non si sa chi sono, né come sono. Tu, quando passi, sei presa di mira da tutti. Senza hayk, esci dall’ordinario, quindi sorprendi, sconvolgi. C’è anche chi dice che le ragazze senza velo eccitano gli uomini, li provocano e vanno incontro, se non proprio alla violenza, alla mancanza di rispetto». Hayk nascondi-miseria, hayk uniforme della negligenza, hayk morte della civetteria. Alla tua ombra, private della carezzevole luce dello sguardo altrui, le donne deperivano in fretta, come i fiori per mancanza d’aria. Hayk primo sudario delle sepolte vive.
Un romanzo intenso anche, e soprattutto, per l’atroce veridicità del contesto.
La mia personale opinione è che ci sia un buon equilibrio tra la realtà e una dimensione più intima. Ci sono, infatti passaggi lirici e, se si fa attenzione, si può notare come siano dedicati soprattutto alle descrizione del paesaggio naturale (il deserto, le dune) e ai racconti mitici della nonna Zohra.
Credo che la parte poetica sia un omaggio dell’autrice alla propria terra e ai propri affetti. Sicuramente un dono caricato di nostalgia per la Mokaddem che si è trasformata ai mie occhi in una grande emozione.
"L’indipendenza è prima di tutto un cammino, con gli occhi all’orizzonte e i piedi fuori dalle catene e dal letame"...more